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VIA CRUCIS, LOCARNO-PARMA 1986-2000.
Dietro la terra la luna faceva capolino. Malgrado avesse appena
subito un’eclisse solare era sorridente e si aggraziava gli
sguardi dei bambini e degli innamorati. Ero convinto dell’infinità
del nulla e perciò lo paragonavo alla morte, le vedevo come
due entità misteriose e tentatrici. Quando dipinsi la Via
Crucis ho giocato su queste sensazioni, captando l’odore della
folla e scavando nella follia collettiva. I pensieri sfuggivano
dove i sorrisi si adeguavano.
I colori delle 14 stazioni cambiavano da un quadro all’altro,
si amplificavano fino a raggiungere la potenza di un castigo di
Dio o si scarnificavano come il corpo di Cristo durante la spoliazione
e la flagellazione.
Lungo il percorso della Croce sputi, schiaffi e prostitute, santi,
ladri e bugiardi, venditori di panini, gelati e bibite precedevano
di tantissimo tempo i persuasori occulti e i varietà televisivi.
La Croce, la teatralità, il dolore, il perdono, i sensi di
colpa, la pietà si univano per lavorare e plasmare la coscienza
collettiva e trasformarla in un atto di giustizia atto a giustificare
la commedia drammatica e tragica che si recitava dall’inizio
dei secoli, in nome di Dio, del Popolo e dell’Oro. Psicodramma
che continua imperterrito da nord a sud e da est a ovest, dilatando
i punti cardinali in una croce contemporanea e globalizzata.
Il vento portava lontano le immagini, dentro le case la farsa dei
“giustizieri in un interno” si ripeteva ogni anno. Pensavano
di impazzire cercando di risolvere l’enigma della nascita
di Cristo avvenuta senza coito né piacere (così si
supponeva) contrapposta alla morte violenta e alla risurrezione
miracolosa.... il solito raccontatore di barzellette diceva che
forse era una macchinazione per poter continuare i calendari!
Comunque, visto che la storia finiva sempre più o meno con
il perdono tutti si sentivano vittime e carnefici, Cristo sorrideva
alla Madre e con ironia diceva:
• Guarda che domani ci sarò ancora-.
Sandokan ed il Corsaro Nero, sua figlia Jolanda e Pinocchio, Che
Guevara e Robin Hood arrivarono sulla scena molti anni dopo... raccontandomi
altre storie....
Diopadre e Padredio si delegavano il potere a vicenda lasciando
il supergettonato “D’io” in una crisi di fede.
Quattordici stazioni, quattordici soste, in una Via Crucis situata
in un crocevia dell’esistenza dove tutte le strade affluivano
nella sofferenza della memoria. Nella via del cuore e della gioia
l’innesco dell’interrogazione e della colpa non impedivano
lo scorrimento di sangue giornaliero.
Dipingendo la Via Crucis cercavo un segno laico, un po’ agnostico
e avevo paura di essere blasfemo. Mi ero avventurato su un percorso
dove gli estremi sentimenti si toccavano, dove l’odio e l’amore
erano ospiti del paradiso e dell’inferno. Mi sono chiesto
se era possibile trovare un po’ di ironia per smorzare il
dramma ma caddi ben più di tre volte, incontrando accidiosi
più potenti di Pilato.
Con il peso dell’assenza e sentendo lo sguardo del Figlio
di Dio ho intercalato la Croce, come simbolo terreno, in uno spazio
senza tempo di una Via Crucis sempre presente. La colpa dei sensi
era forse quella di non saper affermare la propria identità
e di non azzardarsi a vivere il fiume in piena della vita.
Nando Snozzi 1986-2000
LUCE, VOLTO, VIOLENZA E SACRO.
In principio era il Kaos.
“Elohim dice: sarà una luce. Ed é una luce.
Elohim vede la luce: é bello! Elohim separa la luce dalle
tenebre.
Elohim grida alla luce: Giorno!
Alle tenebre grida: Notte!” (Genesi: 1,3-1,5)
È venuta in mente, subito, la Scrittura con il primo atto
creativo che é violazione. La luce appare e fende abbagliante
lo spazio che si dispiega infinito nella sua immaterialità
amorfa, segnandolo implacabilmente. È, la Creazione, metafora
per eccellenza.
L’istinto creativo attinge inesorabile alla metafora della
violazione. Non ha, come il Dio, la Parola, ma colore e luce, colore
ed energia, colore e libido.
Questa creazione pittorica emerge inarrestabile esprimendo il fascino
apocalittico dell’esperienza interiore. Essa non é
mai risoluzione univoca, segno unico che racchiude e consegna in
modo definito l’oggetto rappresentato. Essa contiene la violenta
potenza che appare netta e senza ambiguità, si impone imperiosa
attraverso la forma; come se ogni corpo, ogni volto traesse da una
primordiale energia la capacità di autoplasmarsi.
L’opera parla un linguaggio violento, ma anche immateriale
nella tragica rappresentazione dell’Evento.
Cos’é violento? Il contenuto dell’oggetto rappresentato,
certo. Un percorso alla Croce non può essere che terribilmente
violento. La progressiva anabasi verso la morte trova la sua necessaria
“coniunctio” con la violazione.
Cosa viene violato? La stessa concezione di umano è strappata,
colpita senza ritegno, calpestata. La “pietas” pare
annichilita, non ha più alcun diritto sul Volto improbabile.
La spoliazione é totale: é già avvenuta nel
momento della condanna. Il volto dell’abietto sta dinanzi
a noi. Quale sentimento può ispirare se non inquietante ripulsa
la visione del volto che contiene la propria miseria, sintesi della
miseria inconfessata.
Come può esprimersi in immagine evocativa il percorso della
violazione?
L’atto creativo, é stato detto, é violento.
L’opera dell’artista si delinea attraverso atti che
condensano i momenti propri di un unico divenire. L’impulso
istintuale trascina in sè l’inebriarsi orgasmico della
potenza creatrice a cui succede, come necessario compimento, il
pensiero. Ed allora esso discrimina l’informe e simbiotica
vita della materia separando (levatrice dell’arte) la matrice
originaria e riconsegnandola trasformata in condensazione evocativa.
L’opera abbraccia spazi che altri dicono impropri, coniugando
la potenza della sacralità che si umanizza in un tempo immemore
e ritrovandola purificata nella disumanità degli attuali
volti incontrati nel fluire delle sotterranee strade metropolitane.
Così la trasgressione riecheggia la sofferenza del percorso
sacrificale non attraverso la rappresentazione appagante dei segni
del racconto, ma fa rivivere il racconto nella scansione dei segni
del Volto, sintesi estrema degli eventi osservati e vissuti.
Dissacrare questo Volto é farlo divenire “Altro”.
Si presenta nella tela nuovo e senza nome. Emergono dall’inconscio
antichi misteri che si depositano su di esso come segni scavati
da mugghianti ricordi.
Tolto lo schermo delle incrostazioni accumulate dal trascorrere
di mille vite, l’anima ha mutato il volto bulinando incessantemente
la materia del corpo.
Un volto che non é stato lambito dalla vita, ma travolto,
quasi una mano implacabile lo abbia immerso nel vortice di acque
dilavanti e corrosive. Tutta la vita sfocia in un attimo e sembra
raggrumarsi nelle pieghe del Volto.
Nell’incandescente opera dissacrante è possibile finalmente
squarciare il velo formale che ricopre l’immagine e fare emergere
il volto disvelandolo nella sua tragica verità.
E infiniti nel volto appaiono i contatti tra luce e materia rivelandosi
diversi gli uni dagli altri, accostandosi e fondendosi in innumerevoli
giochi di colore senza mai annullarsi.
Il Volto, tolto il vincolo mistificante della ammantata sacralità
rimane pietrificato, la bocca spalancata in un grido senza voce,
nel vedere la grandezza e l’0rrore di questo spettacolo frutto
del suo pensiero.
Il disvelamento impietoso della lacerante verità, partorita
con furore audace, pervade l’anima di iconoclastici turbamenti.
Appare l’immagine dilatata, l’incombenza del Volto che
assume su di sè l’incubo dell’Evento, in una
rappresentazione talmente reale da evocare l’allucinazione
della morte. Non più la morte che annulla, limite da varcare
senza ritorno, ma discesa verso il limo, laddove si perde il corpo
nell’avvolgimento caldo e umido della terra. E il Volto ancora
riflette, nel buio sepolcrale antecedente la liberazione, la luce
catacombale che ne impregna la superficie.
La verità violata diventa verità disvelata.
La Parola risale al suono primigenio, l’immagine ricongiunge
la Materia, il Colore, la Luce.
Antonio G. Marcello
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