Passaggi Clandestini 2018
Performance tenutasi nell’ambito del festival Territori 2018 – Festival di teatro in spazi urbani – Bellinzona
Con :
Nando Snozzi, maggiordomo, pittura, costumi, testi e regia.
Matteo Mengoni, giullare con piano e armonica
Rocco Lombardi, quasi piovuto dalle nuvole con la batteria
Patrizia Barbuiani, maestra di cerimonia – attrice-lettrice
Zaira Snozzi, animatrice di scena con nani e ritratti
Gianni Hofmann: mimetizzatore senza patente
Foto di Marco “Beo” Beltrametti (MBB), Katiuscia Cidali (KC) e Reno Portavecchia (RP)
Clandestini a Territori
L’io narrante si muove tra i viadotti della memoria, dove ristagnano odori che fanno rifiorire ricordi e suoni e che risvegliano immagini. Visi rinsecchiti come mummie e visi colmi di forza, volti freddi come lapidi e volti misteriosi come sabbie mobili creano una società di inafferrabili individui, nei quali non posso riporre alcuna fiducia a prescindere. Soffiano venti indecifrabili, indiscreti e continui. Il tempo, come un indigesto giorno di mezza primavera, passa leggero sulle teste senza corpo. Senza prospettiva e visioni sociali all’orizzonte l’essere umano sfiorisce, la firma del futuro si disegna.
Il decalogo dei silenzi Clandestini
Mi stupisce l’ossimorico rumore silenzioso,
il non detto eloquente mi mette ansia.
Come un clandestino, il mio discorso è silente
e l’effetto che procura è diverso per ogni
persona che ascolta.
Mi smarrisco tra rumore e melodia, tra suono e musica,
davanti ad un bivio, mi oriento prendendo
contemporaneamente due strade.
Nel silenzio vigliacco e crudele di Dio, drammi
e disastri accadono sotto l’egida di menzogne
create dietro le porte blindate dei poteri planetari.
Le stanze del silenzio totale sono inimmaginabili come l’infinito.
Cerco nel silenzio l’estensione della paura e della speranza.
Elaboro la sensazione della morte e ascolto il silenzio della vita,
perché diventi un’idea.
Clandestino e anonimo, depredato delle radici,
vago in un paesaggio sconosciuto.
Sono al limite del nulla,
cammino su prati freschi di rugiada.
Sconsiderato è il mio piano di fuga,
mi sento libero di sparire,
di unirmi con l’anonima folla dei disadattati.
Mi mimetizzo con artifici d’arte.
Clandestino sull’amaca
Sull’amaca, elaboravo il lutto per la libellula morta dietro il frigorifero. Pensavo alla mia vita da accumulatore di riproduzioni (intese come ripetizioni di azioni e immagini e parole). Una logica forse sbagliata, basata sulla paura del giudizio e sulla poca considerazione di me o del bluff che stavo giocando. Passeggiavo nel vuoto di una generazione che aveva perso il coraggio delle idee.
Frugando goffamente nei ricordi, rievocavo l’orto della casa paterna, che avevo odiato perché mi costringevano periodicamente a estirpare le erbacce. Il pollaio era la mia disperazione. Dovevo spazzare il pavimento, in cui, per essere “moderno”, mio padre aveva sostituito la terra battuta con il cemento. Le galline non erano molto contente: da ruspanti erano diventate schizzinose e dal trespolo deponevano le loro cacche sul pavimento che in seguito io dovevo raschiare perché il cemento rimanesse intonso. Altro dramma del pollaio era quando dovevo raccogliere le uova che, diligentemente, le galline deponevano nella paglia. Ero abbastanza impacciato e maldestro, almeno uno al giorno lo schiacciavo. Non avevo a disposizione i contenitori appositi e dovevo avvolgerle in pezzi di giornale, riporle nelle cassette di cartone e fare il giro del quartiere in bicicletta, per consegnarle a chi le aveva richieste. Ero sempre in preda al terrore di fare un’enorme frittata. Di solito la comanda delle uova era il compito domenicale di mia madre, dopo la messa.
Il dondolio dell’amaca cullava la convinzione che da questi ricordi non avrei tratto uno stimolo per deporre sogni e desideri nel cassetto del futuro. Inoltre detestavo i sogni ad occhi aperti perché potevano essere pericolosi. Li percepivo come oggetti contundenti usati contro la realtà e troppo ostici per affrontare il tempo che restava. Per scherzo piazzavo i nani da giardino nel terreno di casa come talismano contro i brutti pensieri.
Clandestino nel 2017
Bisogna abbracciare il male (fisico o globale) con parsimonia,
tanto da condizionarlo nella sua perfidia.
Confido nel mio rifugio nell’ignoranza,
sempre alimentata dal passare veloce del tempo,
per eliminare la menzogna dall’istinto di sopravvivenza.
Esigo che il coraggio si faccia vivo
per preservarmi dalla paura che si insidia nel futuro,
come i vermi nel formaggio.
Prendo coscienza che dovrò convivere con i dispensatori del terrore.
Nessuna avvisaglia mi mette in guardia sul percorso da seguire
per anticipare la tragedia, ma suppongo che la provvidenza mi ispirerà
sul da farsi (risata in santa pace).
Un’agile spudorata e suggestiva favella e
un fascino che fa difetto esagerando nella volgarità,
alimentano la pruderie dei signori e delle signore
che prendono la strada maestra della violenza e del cinismo,
e inscenano sempre atti osceni spettacolari per l’immaginario collettivo.
Resto intrappolato nello zoo universale, un po’ profugo di lusso,
assieme a bestie ed esseri umani.
Non intravedo nessuna discrepanza nel progetto globale
per la messa in atto della tragica commedia planetaria.
Le paure del Clandestino
Soprattutto niente di personale…
o quasi…
non posso non essere dentro il racconto.
La vita è come uno sbadiglio, mi si attacca addosso.
Molti momenti passano nella confusione di un ammasso di persone. Vino, birra, limoncino e mirto, panini, patatine fritte e Kebab, gelati, pizza in tutte le sue declinazioni, carne e pesce, è un variegato menù dove carnivori, vegetariani e vegani imbastiscono una schizofrenica parata di piccoli fanatismi.
In altre circostanze constato che i pendolari della lussuria si nascondono nella penombra dei misfatti.
Penso, dico e affermo, mi contraddico e nego, le parole s’infilano una nell’altra con o senza un senso. La vita è stata, è e sarà ancora lunga o corta a seconda dei ragionamenti e delle misure che si mettono in atto.
Un giorno, in una regione di raffinerie di petrolio (che avevano fatto la ricchezza del luogo) e di passaggio di aria inquinata vidi tante farfalle. Cercai di disegnarne una e l’immagine risultò geneticamente modificata. Farfalle e idee ecologiche si scontrano sulla disinformazione riguardante i mutamenti genetici. L’eterno dilemma della paura è l’unica sicurezza che rimane dopo la nascita e si concretizza nel pensiero di come gestire la sensazione della morte.
La barca scivola verso il buio e la vastità del mare, l’argento della luna si specchia nelle squame dei pesci che saltano fuori dall’acqua a caccia dei moscerini della notte, la grande stella e il disegno delle costellazioni indicano la direzione conosciuta agli esploratori, misteriosa e magica per me, mozzo della vita e marinaio senza scialuppa… e frequentatore di serie televisive.
Clandestino per dolore
Quando scesi dalla barca restai in spiaggia a ripassai le sensazioni esaltanti percepite durante il concerto, in una chiesa, di Paolo Fresu, che con la sua tromba magica intrecciava sonorità con le voci del coro polifonico corso A Filetta (La Felce) e il bandoneon di D. Di Bonaventura. Un concerto sacro e profano, laico e rispettoso di una multietnicità che solo l’arte e la cultura possono regalare.
Il sole sorgente e la voce di Ekart mi rimossero dal mio “limbo” mattutino. Aveva una cicatrice sulla parte sinistra della fronte e un’altra dal seno destro fin sopra l’ombelico. La sua voce di carta vetrata aveva un accento indescrivibile. Ogni 2 ore doveva fare un sonnellino perché la vita l’aveva stancato e doveva riposare tanto. Diceva anche che la vita è triste, perciò rideva il più possibile. Era tedesco o austriaco. Era come un rebus, quando gli ponevo una domanda mi rispondeva facendomene un’altra o rispondendo a quella che gli avevo posto il giorno prima. Aveva circa sessant’anni e quando parlava passava da un’intonazione di rabbia dolorosa a dei toni beffardi e caustici. Era sull’isola da 12 anni e l’aveva girata tutta, non aveva dimora fissa e i suoi documenti erano scaduti. A un certo punto della sua esistenza aveva perso tutto. Gli dissi che mi dispiaceva ma non approfondii l’indagine perché non volevo diventare il depositario delle sue disperazioni.
Non so cosa fosse il “tutto” che aveva perso. Possedeva solo la tessera del bancomat che teneva dentro un involucro impermeabile attaccato al collo per poter prelevare una piccola pensione. Arrotondava quel tanto che bastava con delle mance che gli davano i gestori dei due bar perché dalle 6 alle 8 svolgeva i lavori di pulizia, andava a comperare il pane e i giornali, irrigava le aiuole e poi gustava il cappuccino e brioche che gli offrivano…
Ekart era un mistero, si percepiva dietro le sue parole una tragedia lontana che voleva o doveva dimenticare. Il suo sguardo ogni tanto si perdeva lontano sul mare come se cercasse risposte a domande che non conosceva…
Mi sembrava un uomo in attesa, un uomo che stava passando il tempo con la paura alle costole, una paura che si nascondeva dietro la sua lentezza e la sua ironia. Sulla spiaggia era un essere umano che apprezzava il senso del suo passare sulla terra più del vuoto di senso di cui erano portatori i turisti consumatori di mode e di aria fritta…
Quella mattina constatammo di non aver avvistato meduse e andammo a bere un vermentino… Da quel giorno non lo vidi più.
I Clandestini della follia
… e il circolo vizioso si completava in un nulla di fatto con i soliti perdenti…
… interventi fantastici e tecnologici nel grande freddo e tra le dune di sabbia, nelle metropoli e nei paesini di montagna, nelle campagne e nei laghi, nel mare e nell’aria, erano stati messi in atto. Controllavano il passaggio in territori inconsueti dei clandestini della follia.
Le previsioni meteorologiche non infondevano più nessun senso di sicurezza, le antiche montagne erano invase dai veleni del turismo alpino. L’invidia e la supremazia intimavano i sigilli della censura. I poveri vassalli della terra piegavano la testa sotto l’egida di un potere che si era autoproclamato. Non si trovava la felicità neanche a cercarla con la lampada magica del buon genio. I gerarchi erano in cerca delle pulsioni dell’amore, ma le principesse dagli occhi di corallo preferivano cavalcare tappeti volanti più idonei al loro pube d’oro, che il grezzo fallo degli esseri umani senza princìpi morali.
I reggenti, i servi, la razza padrona erano già prede dell’albero genealogico nella notte dell’utero.
.. l’ultima notte di un guerriero era stata commemorata e santificata con le lacrime di svariati coccodrilli boriosi sempre in erezione davanti alle lontane disgrazie altrui. La via lattea aveva dovuto abdicare alla sua luce e, sotto forma di donazione, regalarsi alle banche. I discepoli del mago del lago e della strega delle streghe avevano deposto una corona di rose purpuree davanti al monumento obsoleto…
Il ventre della fata era ornato con un piercing sull’ombelico e ospitava il mondo che aveva amato la vita al punto da rinunciare alla sua orbita. Il guerriero dal fisico possente continuava a essere evocato, la sua esistenza era assicurata nel martirio. Il racconto delle sue doti e delle sue imprese stimolava l’incontro dentro i ginecei dove si cercava il principe nero e si gettava l’invidia in consessi di uomini poco dotati in senso lato. Pochi erano pronti a raccogliere un’eredità che si doveva confrontare con l’avventura non ancora contaminata da notizie discordanti sull’estinzione della fantasia… La strega e il mago erano attivi prima, durante e dopo il tempo, non riuscivano a scalfire la corazza dell’artista intento ad operare tra due mondi costantemente in guerra… non vivevano felici e contenti, trasgredivano, si ribellavano e poi morivano…
L’amuleto era stato ritrovato dopo molti secoli di giacenza nei sotterranei del tempio dell’inedia. Come fu liberato dal peso della magia si dette alla bella vita. Fu ripudiato dai maghi che si ritrovarono senza potere e dalle streghe che misero in atto il gioco della seduzione… correva un tempo in cui, ignoti, avevano rubato i giorni…
Nando Snozzi 2018